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  • Da Mirone e Policleto a Platone
    Versione audio: Furono diversi gli scultori greci che, tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C., produssero prototipi di figure d’atleta destinati a grande fortuna. Tra questi, Naukydes, Naucide in italiano, attivo tra il 420 e il 390 a.C. circa, fu uno dei più valenti discepoli di Policleto. È lui il probabile autore di un celebrato Discoforo, letteralmente ‘portatore del disco’, il cui originale in bronzo è andato purtroppo perduto. L’opera rappresentava un pentatleta in posizione di riposo. A differenza del Discobolo di Mirone, impegnato in una competizione, il Discoforo di Naucide non stava ancora compiendo il gesto atletico. Era, come il Doriforo di Policleto, più che altro un atleta simbolo, la sua identità di campione sembrava esplicarsi unicamente attraverso la bellezza del suo corpo. Naukydes, Discoforo (da un modello di Policleto del 460 a.C.), copia romana in marmo da un originale in bronzo della seconda metà del V sec. a.C. Altezza 118 cm. Roma, Musei Capitolini, Montemartini. Il Discoforo di Naucide Possiamo verificarlo attraverso alcune copie, una delle quali si trova a Parigi e un’altra a Roma. L’atleta, in posizione eretta, appare leggermente sbilanciato sulle gambe, con il braccio sinistro, quello che tiene il disco, allungato lungo il corpo. Sembra che il giovane stia cercando una posizione equilibrata prima di sollevare e lanciare il disco. Il volto, leggermente abbassato verso destra, è segnato da un’espressione assorta e concentrata. Non è facile stabilire se questo modello di Discoforo sia un’invenzione originale di Naucide o piuttosto la sua personale rielaborazione di una precedente idea di Policleto. Ma poco importa. Esso comunque testimonia di quanto sia stata profondamente radicata, nella Grecia del V secolo a.C., una certa idea di bellezza, basata essenzialmente sul naturalismo idealizzato. Naukydes, Discoforo (da un modello di Policleto del 460 a.C.), copia romana in marmo da un originale in bronzo della seconda metà del V sec. a.C. Altezza 167 cm. Parigi, Museé du Louvre. Il Bello artistico e filosofico Il Bello, per i Greci, è qualcosa che si trova insito in Natura; ma il bello naturale non è bello in sé, giacché imperfetto. La bellezza assoluta risiede altrove e compito dell’artista è quello di ricrearla. Questa concezione estetica risentiva profondamente della posizione di alcuni importanti filosofi greci di quel periodo. Primo fra tutti, l’ateniese Platone (428/427348/347 a.C.). Nel periodo maturo del suo pensiero, egli introdusse un modo di guardare la realtà che avrebbe rivoluzionato e caratterizzato la tradizione filosofica futura. Il filosofo ateniese riteneva che ciò che appare ai nostri sensi non corrisponda all’essenza intima della realtà. Per questo, distinse il mondo sensibile dal mondo delle Idee. Mirone, Discobolo, copia antica (detta Discobolo Lancellotti) da un originale in bronzo del 455-450 a.C. ca. Marmo, altezza 1,56 m. Roma, Museo Nazionale delle Terme. Le Idee di Platone Le Idee (dal greco èidos, ‘forma’, ‘idea’) sono entità puramente intelligibili, eterne e immutabili che si trovano al di là del mondo concreto, in una regione sovraceleste detta Iperuranio. Platone concepì l’esistenza di Idee per qualunque cosa, comprese le specie naturali, indipendenti rispetto agli oggetti sensibili. Il mondo sensibile o corporeo, ossia il livello di realtà nel quale gli uomini vivono, soggetto a corruzione e a mutamento, è la riproduzione materiale della realtà autentica, quella dell’Iperuranio, che invece è puramente intelligibile e dunque comprensibile solamente attraverso il pensiero. Secondo Platone (vedi il dialogo platonico intitolato Timeo), un Demiurgo fu l’artefice divino che plasmò il mondo materiale, prendendo a modello le Idee dell’Iperuranio. Quindi, ad esempio, tutti i cavalli di cui facciamo esperienza sensibile (che vediamo correre, che tocchiamo sul muso, ecc.) per Platone non sono altro che la copia imperfetta di un modello ideale (perfetto) di cavallo che vive nell’Iperuranio. Policleto, Doriforo, copia antica da un originale in bronzo del 450-445 a.C. Marmo, altezza 2,12 m. Napoli, Museo Archeologico nazionale. Aspirare alla perfezione Potrebbe dunque sorgere una domanda legittima: questo mondo perfetto è accessibile all’uomo? Sembrerebbe di sì. In che maniera? Platone rispose: attraverso l’anima. Ogni uomo è dotato di anima, principio immortale e incorporeo della vita, costretta a vivere nell’involucro materiale e mortale del corpo, concepito come sua prigione e zavorra. Come il filosofo spiega nei suoi dialoghi Simposio e Fedro, opere cardine della cosiddetta “teoria dell’anima di Platone”, l’anima aspira all’Idea del Bene anche nel corso della vita terrena, grazie all’amore per il Bello: l’Amore (in greco èros) spinge infatti l’anima verso ciò che è bello, e la bellezza trascina, a sua volta, verso il regno delle Idee, che poi è quello della verità, dell’armonia, della misura e della proporzione. Tre gradi di bellezza Inoltre, il filosofo identifica tre gradi di bellezza: quella di un singolo corpo; la bellezza corporea in generale; infine, la bellezza in sé, la quale è perfetta, eterna e immutabile. Essa ha un’esistenza autonoma e risplende ovunque, senza essere vincolata a un qualche oggetto sensibile. Per questo, l’uomo deve imparare ad allontanarsi, per gradi successivi, dall’apparenza ingannatrice del mondo reale, il quale è solo la copia sbiadita della perfezione: egli deve prima riconoscere che un corpo è bello, e, attraverso questo, concepire la bellezza della corporeità in genere; in terzo luogo egli deve cogliere, progressivamente, la bellezza dell’anima, delle istituzioni, delle leggi, delle scienze, per giungere, infine, alla contemplazione del Bello in sé, approdando così alla Verità e al Sommo Bene. Fidia, Dioniso, 438-432 a.C. Dal Frontone orientale del Partenone. Marmo pentelico, altezza 1,22 m, lunghezza 1,30 m. Londra, British Museum. La condanna platonica dell’arte L’arte greca e, da questa, buona parte dell’arte occidentale sviluppatasi in oltre duemila e cinquecento anni, ha fatto della celebrazione della bellezza il suo fine prioritario. Eppure, per quanto possa oggi a noi apparire paradossale, Platone (nel libro X della sua Repubblica) pronunciò un’esplicita condanna dell’arte del proprio tempo. Egli, infatti, non collegò la tematica della bellezza in sé a quella prettamente artistica. Secondo il filosofo, l’arte, e in particolare quella figurativa, è il frutto di un processo di semplice imitazione del mondo sensibile, il quale costituisce il gradino più basso della realtà. Essa è copia di una copia. Ne consegue che l’ammirazione per l’arte, dal punto di vista conoscitivo, porta ad allontanarsi dalla realtà vera delle cose, ossia dal mondo delle Idee. Egli propose questo esempio: un pittore che dipinge un letto restituisce solo la parvenza del letto medesimo; un artigiano che lo fabbrica cerca quanto meno di riprodurre l’Idea di letto attraverso la materia, per quanto la sua opera rimanga comunque imperfetta. L’artista, dunque, si allontana molto più dell’artigiano dalla verità. E se già è difficile cogliere la verità partendo dalla realtà, ancor di più è arduo pervenire al Vero partendo dall’imitazione della realtà. È bene considerare che, nel formulare questo giudizio, Platone era mosso da intenti prettamente filosofici, e non estetici; non escludiamo, infatti, che egli apprezzasse, come noi, la bellezza di un’opera d’arte. Per il filosofo, il contenuto prevaleva sempre sulla sua manifestazione e dunque, secondo lui, l’arte non era uno strumento educativo adeguato alla creazione dello “Stato” perfetto. La sua condanna dell’arte non è, insomma, così assoluta. Fidia, Cefiso, 438-432 a.C. Dal Frontone occidentale del Partenone. Marmo pentelico, 82 x 156 cm. Londra, British Museum. 1,06 m, lunghezza totale originaria 160 m. Londra, British Museum. Contro l’arte mimetica E, d’altro canto, egli fece esplicito riferimento all’arte puramente mimetica e parve concentrarsi soprattutto sul lavoro dei pittori, che attraverso l’uso dello scorcio, ossia della prospettiva, non rispettavano l’esattezza oggettiva delle belle forme. Invece gli scultori greci, almeno sino al III secolo a.C., rifuggirono dalla visione soggettiva delle cose e, soprattutto, non riprodussero mai fedelmente gli elementi naturali, non così come apparivano ai loro occhi. Al contrario, essi li idealizzarono, rendendo perfetto ciò che in natura perfetto non è. “Idealizzare” vuol dire, appunto, rappresentare una figura in modo da avvicinarla a un tipo di perfezione ideale. Il Discobolo di Mirone, il Doriforo di Policleto, il Discoforo di Naucide non ripropongono le immagini di veri atleti, con una loro identità, nomi, caratteri, storie personali, difetti: tali opere, grazie all’applicazione di un kanon e alle loro forme statiche, rimandano ad una sola Idea di atleta, perfetto e, in quanto tale, emblematica espressione di bellezza. Per questo, le sculture greche sono più prossime al mondo delle Idee platoniche eterne che non al mondo reale in cui agivano i veri atleti, che per tali statue fecero solo da modelli di riferimento e che vissero la propria vita nella fatica, nel dolore e nel sudore, e infine invecchiando e morendo come tutti. L'articolo Da Mirone e Policleto a Platone proviene da Arte Svelata.
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    8:12
  • I Sassi di Matera in Basilicata
    Versione audio: La città di Matera, in Basilicata, è rinomata per i suoi rioni storici denominati Sassi (il Sasso Barisano a Nord e il Sasso Caveoso a Sud), che l’Unesco ha riconosciuto patrimonio dell’umanità in quanto “paesaggio culturale”. I Sassi sono infatti un agglomerato urbano realizzato a ridosso di un profondo burrone, con abitazioni, chiese rupestri, cisterne e sistemi di raccolta delle acque in buona parte ricavati nella roccia. Matera fu abitata già in epoca preistorica. In seguito, arrivarono i Greci, i Romani e, a seguire, i Longobardi. A partire dall’VIII secolo, giunsero anche monaci benedettini e bizantini, che scavarono le chiese rupestri. Una nuova espansione urbanistica del complesso risale al periodo romanico e gotico. I Sassi furono abitati con continuità fino al 1952, quando il governo italiano ne ordinò lo sgombero per motivi di “igiene” e circa 15.000 persone furono trasferite in nuovi quartieri residenziali. Una veduta dei Sassi. Matera. L’abitato Per secoli, prima che i Sassi di Matera si affollassero tanto da risultare invivibili, il sistema urbanistico rupestre si era dimostrato efficace. Le strade erano affiancate da canali d’irrigazione che rifornivano le cisterne di ogni casa (alcune, le più grandi, ne avevano fino a sette). Sui tetti erano stati ricavati orti e giardini pensili. L’illuminazione delle case avveniva dall’alto, attraverso lucernari. La temperatura interna degli ambienti si manteneva costante, intorno ai 15 gradi. Le abitazioni si affacciavano a gruppi su uno spiazzo comune, spesso dotato di un pozzo al centro, dove si lavavano i panni, e di un forno, dove si cuoceva il pane. Questi micro-nuclei urbani erano l’espressione più evidente di un modello sociale di vita comunitaria. Una veduta dei Sassi. Matera. Chiesa rupestre di Santa Maria del Vitisciulo, già San Luca alla Selva. Matera. Una casa-grotta dei Sassi. Matera. La ricostruzione di un interno di una abitazione nei Sassi. Matera. La ricostruzione di un interno di una abitazione nei Sassi. Matera. Santa Lucia Matera vanta formidabili complessi monastici scavati nella roccia, sia benedettini sia bizantini, con le celle dei monaci raccolte intorno alle chiese sotterranee. Tra i più importanti conventi ricavati nell’ambito urbano troviamo Santa Lucia alle Malve, un complesso rupestre che anticamente ospitava un’intera comunità monastica e che conserva, sulle pareti interne, alcuni affreschi, molti dei quali risalgono al XII secolo. L’Arcangelo Gabriele che calpesta un drago, simbolo del male e degli infedeli, è datato 1250; quello della Madonna del Latte è del 1270. La chiesa vera e propria era separata dalle abitazioni monastiche, che a partire dal XIII secolo furono utilizzate come abitazioni private. Ancora oggi, il 13 Dicembre, nel giorno di Santa Lucia, in questa chiesa si celebra la messa. Chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve, VIII sec. Matera. Chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve, VIII sec. Matera. Nelle nicchie Madonna del latte (a sinistra) e Arcangelo Michele (a destra). Convicinio di Sant’Antonio A fianco del torrente Gravina si trova il cosiddetto Convicinio di Sant’Antonio, un complesso architettonico di chiese rupestri, risalenti a un periodo compreso fra l’XI e il XIII secolo, che probabilmente facevano parte di un monastero di grandi dimensioni. Quattro chiese rupestri confinanti si affacciano su un solo cortile rettangolare: sono la Chiesa di Sant’Antonio Abate, la Chiesa di San Donato, la Chiesa di Santa Maria Annunziata e la Chiesa di San Primo. Il portale d’ingresso è a sesto acuto, decorato con motivi trilobati. San Primo presenta delle volte decorate con nervature e ha l’affresco d’un santo ignoto. Questa chiesa è più conosciuta con il nome popolare di Tempe cadute, ossia massi caduti (le ‘tempe’ sono, appunto, i massi). Attraverso un varco, sulla sinistra, si accede alla contigua chiesa dell’Annunziata, decorata nell’abside con affreschi del Cristo tra Maria e san Giovanni Evangelista, e nella parete sinistra con una santa monaca e la Madonna col Bambino. San Donato è a pianta quadrangolare con due pilastri centrali che separano gli spazi e individuano tre zone: il vestibolo, l’aula e il presbiterio. La volta centrale è decorata una con grande croce gigliata in rilievo. Ingresso del Convicinio di Sant’Antonio. Matera. Chiesa rupestre di San Donato, XI-XIII sec. Matera. I Sassi nel cinema Per il carattere suggestivo del loro paesaggio urbano, i Sassi di Matera sono stati scelti come ambientazione di alcuni film, anche internazionali, in prevalenza di carattere storico: oltre quaranta, dagli anni Cinquanta fino a oggi. Ricordiamo, soprattutto: Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964), Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi (1979) e La Passione di Cristo di Mel Gibson (2004). Matera, infatti, è stata identificata nel cinema con l’antica Gerusalemme. Altri film di genere religioso e biblico sono stati King David (1985) di Bruce Beresford, The Nativity Story (2006) di Catherine Hardwicke, The Young Messiah (2015) di Cyrus Novrasteh, Ben Hur (2015) di Timur Bekmambetov, e Mary Magdalene (2016) di Garth Davis. Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini (a destra) e l’attore protagonista Enrique Irazoqui Levi in una pausa delle riprese, a Matera, de Il Vangelo secondo Matteo (1964). Il regista Mel Gibson (a destra) e l’attore protagonista Jim Caviezel (al centro) e la sua controfigura durante le riprese, a Matera, de La Passione di Cristo (2004). Trasporto della croce, scena tratta dal film La Passione di Cristo di Mel Gibson (2004), girato a Matera. L'articolo I Sassi di Matera in Basilicata proviene da Arte Svelata.
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    4:45
  • Paestum
    Versione audio: Paestum (oggi in provincia di Salerno) è il nome latino dell’antica città di Poseidonia, importante colonia magnogreca fondata verso la metà del VII secolo a.C., a un centinaio di chilometri da Napoli. Fu chiamata così dai Greci in onore di Poseidone ma in realtà fu devotissima ad Atena e a Era. Poseidonia raggiunse il momento di massimo splendore in età arcaica, a partire dal 560 a.C. I tre principali templi della città furono edificati a distanza di cinquant’anni l’uno dall’altro. Sono: il Tempio di Hera o Basilica (550 a.C. ca.), il Tempio ad Atena (500 a.C. ca.), una volta detto di Cerere, e il Tempio di Nettuno o Poseidone (450 a.C. ca.), detto Poseidonion. L’area del Santuario di Atena, con il tempio omonimo, si trovava a nord delle tre strade cittadine principali. Il Santuario di Poseidone, con i templi di Hera e di Poseidone, era nella fascia tra la strada di mezzo e quella più meridionale. Veduta aerea del sito archeologico di Paestum con (da sinistra) il Tempio di Hera, il Tempio di Nettuno e, sullo sfondo, il Tempio di Atena. I tre templi di Paestum furono tutti costruiti nel calcare locale, che solo nel Tempio di Nettuno ha assunto una calda patina dorata, forse perché tratto da un’altra cava. Gli edifici sono giunti a noi in buone condizioni e costituiscono una testimonianza fondamentale dell’architettura templare greca antica. In particolare, dimostrano come lo stile dorico abbia trovato nelle colonie della Magna Grecia una delle sue migliori espressioni. Per questo, il sito archeologico di Paestum, insieme a quello della vicina Velia, rientra nei confini del Parco del Cilento che, per l’importanza del suo paesaggio naturale e culturale e per la presenza dei due insediamenti, è stato riconosciuto dall’Unesco patrimonio dell’Umanità. Veduta aerea del Santuario di Poseidone a Paestum, con il Tempio di Nettuno a sinistra e il Tempio di Hera a destra. Planimetria del Santuario di Poseidone a Paestum, con le piante del Tempio di Hera a sinistra e del Tempio di Nettuno a destra. Il Tempio di Hera (Basilica) Il Tempio di Hera, detto anche Basilica, fu edificato intorno al 550 a.C. e dedicato alla sposa di Zeus, la divinità più venerata a Poseidonia. Nel XVIII secolo, l’edificio non fu riconosciuto come tempio ma scambiato per una struttura porticata adibita a tribunale e sede delle assemblee cittadine, e per questo venne chiamato Basilica, nome con cui ancora oggi è noto. Si presenta, nel complesso, in buone condizioni, anche se mancano varie parti: i muri del nàos, le parti superiori della trabeazione, i frontoni, la pavimentazione e, ovviamente, la copertura. Tempio di Hera (Basilica), 550 a.C. ca. Paestum (Salerno). Veduta angolare. Tempio di Hera (Basilica), 550 a.C. ca. Paestum (Salerno). Prospetto principale. A differenza di altri edifici della stessa epoca, il Tempio di Hera presenta un numero dispari di colonne nei prospetti. È, infatti, un tempio ennàstilo, con nove colonne sui fronti, mentre sono diciotto quelle sui lati lunghi. ll rettangolo di base misura ben 24,52 x 54,30 metri allo stilobate, la parte superiore del basamento. La peristasi, composta da 9 x 18 colonne, si è conservata integralmente. Le metope e i timpani, perduti, erano quasi certamente privi di decorazioni scultoree, essendo ancora del tipo arcaico. Le metope erano lisce, forse solo dipinte, oppure rivestite da lastre di terracotta colorate di rosso e blu. Tempio di Hera (Basilica), 550 a.C. ca. Paestum (Salerno). Veduta aerea. Tempio di Hera (Basilica), 550 a.C. ca. Paestum (Salerno). Veduta dall’interno della peristasi e di ciò che resta del colonnato del nàos. Le colonne, in pietra calcarea grigia e alte 4,68 metri, presentano un’entasi molto accentuata e una marcata rastremazione; l’echino del capitello è schiacciato ed espanso e l’abaco piuttosto largo. Fusto e capitello sono uniti da un collarino decorato con piccole incavature regolari a forma di foglioline stilizzate. Tempio di Hera (Basilica), 550 a.C. ca. Paestum (Salerno). Veduta di ciò che resta del colonnato del nàos attraverso le colonne della peristasi. Il pronaos era tristilo, cioè presentava tre colonne in àntis, tuttora esistenti. All’interno del nàos, cui si accedeva da due porte laterali, si trovava un solo colonnato centrale. Delle 7 colonne originarie sono rimaste solo le prime 3. Invece dell’opistòdomos, nella parte posteriore, si trovava l’àdyton, un ambiente chiuso cui si accedeva dal nàos, anche in questo caso da due porte laterali. Tale stanza, presente anche in altri templi greci in Italia, conservava, probabilmente, il tesoro del tempio e ospitava la statua della dea. L’àdyton, il prospetto ennastilo e il colonnato unico interno sono senza dubbio gli elementi più tipicamente arcaici di questo tempio. Soluzioni analoghe sarebbero state decisamente abbandonate dall’architettura greca in età classica. Tempio di Hera (Basilica), 550 a.C. ca. Paestum (Salerno). Veduta della peristasi con l’architrave della trebeazione. Tempio di Hera (Basilica), 550 a.C. ca. Paestum (Salerno). Capitelli della peristasi. Tempio di Hera (Basilica), 550 a.C. ca. Paestum (Salerno). Due colonne viste dal basso. Si apprezza la veduta del collarino, dell’ampio echino e dell’abaco quadrato. L’abaco misura quasi il doppio del diametro del collarino al sommoscapo, ossia l’estremità superiore del fusto. Tempio di Hera (Basilica), 550 a.C. ca. Paestum (Salerno). Particolare del fusto di una colonna con le scanalature a spigolo vivo. Il Tempio di Nettuno Il Tempio di Nettuno, o Tempio di Poseidone, è il più grande di Paestum e per questo si suppone sia stato dedicato al dio protettore della città, ma non se ne ha certezza. È stato, infatti, ipotizzato che anche questo edificio fosse stato consacrato ad Era. È uno dei templi meglio conservati di tutto il mondo greco. Per questo, e per la sua maestosità, sin dalla seconda metà del XVIII secolo attirò visitatori numerosi, anche dall’estero, che ne fecero tappa irrinunciabile del loro Grand Tour in Italia. Inoltre, grazie alla relativa vicinanza del sito archeologico a Roma, divenne oggetto di studi da parte degli architetti neoclassici ottocenteschi, che ne fecero un modello per i propri edifici classicistici, ispirati al mondo antico. Esso, quindi, ha influenzato l’architettura ottocentesca europea ben più del Partenone, troppo lontano e difficilmente raggiungibile. Tempio di Nettuno, 450 a.C. ca. Paestum (Salerno). Prospetto principale. Costruito in età classica, intorno alla metà del V secolo a.C., nel 450 a.C. circa, si trova a breve distanza dalla Basilica, disposto parallelamente ad essa. Presenta marcate analogie architettoniche con il Tempio di Zeus a Olimpia, edificato nello stesso periodo. Il tempio misura 24,31 x 59,89 metri. Ha un crepidoma di tre gradoni. È di ordine dorico, periptero esastilo. La peristasi, composta da 6 x 14 colonne, alte 8,88 metri e poco rastremate, conferisce all’edificio un aspetto un po’ più allungato della norma. Se fosse stata applicata la soluzione canonica affermatasi nell’architettura della madrepatria, le colonne sarebbero state 6 x 13, Tempio di Nettuno, 450 a.C. ca. Paestum (Salerno). Prospetto principale. La presenza dei turisti tra le colonne aiuta a comprendere le proporzioni dell’architettura. Tempio di Nettuno, 450 a.C. ca. Paestum (Salerno). Prospetto laterale. Un’altra eccezione è data dal numero di scanalature nei fusti delle colonne della peristasi, che sono 24 invece che 20, come prevederebbe la norma dell’ordine dorico. Costruito in pietra calcarea, presenta ancora l’intera trabeazione e i due frontoni, che non sono stati integrati da sculture. Il fregio, realizzato con pregiata arenaria, ha le metope lisce, un tempo vivacemente colorate, forse decorate con rappresentazioni dipinte. All’interno, un alto gradino segna il passaggio dal pronaos in antis, composto da due colonne tra le due ante, al nàos. Questo presentava all’interno tre navate con due file di sette colonne a doppio ordine, ossia a due livelli sovrapposti, con il secondo più piccolo. Le colonne del nàos avevano 20 scanalature nel livello inferiore e 16 sedici in quello superiore. Il tempio era dotato di opistodomos, uguale al pronaos. Tempio di Nettuno, 450 a.C. ca. Paestum (Salerno). Colonne della peristasi. Tempio di Nettuno, 450 a.C. ca. Paestum (Salerno). Particolare della trabeazione con il fregio a metope e triglifi. Tempio di Nettuno, 450 a.C. ca. Paestum (Salerno). In questa foto si vedono il crepidoma in basso, le colonne del prospetto in primo piano, quelle del pronaos in secondo piano e, sullo sfondo al centro, uno dei due colonnati a doppio livello del nàos. Il Tempio di Nettuno, come il Partenone ad Atene, presenta alcune correzioni ottiche, adottate per compensare alcune naturali distorsioni visive generate dalla visione prospettica. Sono state infatti riscontrate una leggera curvatura del crepidoma, l’inclinazione verso l’interno, appena percettibile, delle colonne della peristasi e una leggerissima curvatura verso il basso della trabeazione delle due prospetti principali. Davanti al tempio sono stati ritrovati i resti di due altari (bòmoi) per i sacrifici; sulla sinistra dell’edificio, i resti di due ulteriori altari, numerosi cippi e le tracce di un altro piccolo tempio. Il Tempio di Atena Il Tempio di Atena o Athenaion, arcaico, fu costruito intorno al 500 a.C., nel Santuario settentrionale di Paestum, a una certa distanza dal Santuario meridionale in cui si trovano il Tempio di Hera e il Tempio di Nettuno. Venne edificato sui resti di un precedente edificio templare, probabilmente distrutto da un incendio. Nel XVIII secolo fu attribuito erroneamente a Cerere, ma il ritrovamento di numerose statuette in terracotta di Atena ha reso più plausibile la dedica a quest’ultima divinità. Intorno all’VIII secolo, venne trasformato in una chiesa: la peristasi fu chiusa con muri fra le colonne e le pareti del nàos vennero abbattute. Nel Novecento, si decise di ripristinarne l’aspetto originario, per quanto possibile. Come gli altri due templi di Paestum, anche quello di Atena è di ordine dorico, con elementi formali ancora tardoarcaici: periptero esastilo, presenta una peristasi di 6 x 13 colonne che poggia su un crepidoma a tre gradoni. L’edificio misura 14,54 x 32,88 metri. Tempio di Athena (noto anche come Tempio di Cerere), 500 a.C. ca. Paestum (Salerno). Veduta angolare. Le colonne, costruite in pietra calcarea locale, sono fortemente rastremate, e dotate di collarino un tempo decorato con motivi in rosso, blu e oro, nonché concluse da un capitello ampio. Era per la prima volta che in Magna Grecia si applicava la nuova regola che prevedeva il numero delle colonne sul lato maggiore uguale al doppio più una di quelle della facciata. Il nàos era a navata unica, senza colonnati interni, con pronaos ma senza adyton (la camera del tesoro sul retro). Tempio di Athena (noto anche come Tempio di Cerere), 500 a.C. ca. Paestum (Salerno). Veduta laterale. Il pronaos presentava un’inconsueta soluzione. Era infatti molto allungato e tetrastilo prostilo, con 4 colonne disposte frontalmente e 2 lateralmente. Altre 2 semicolonne d’anta decoravano i prolungamenti delle pareti del nàos all’ingresso. Tali colonne erano ioniche. Ne restano soltanto le basi e due capitelli, i più antichi in stile ionico rinvenuti in Italia, oggi custoditi nel vicino Museo Archeologico. Da quanto ne sappiamo, era la prima volta che due ordini, dorico e ionico, convivevano nello stesso tempio. In prossimità dell’ingresso al nàos, due scale gemelle laterali conducevano al sottotetto. Tutto l’edificio era, in origine, vivacemente colorato. Tempio di Athena (noto anche come Tempio di Cerere), 500 a.C. ca. Paestum (Salerno). Veduta della peristasi dall’interno del nàos. L'articolo Paestum proviene da Arte Svelata.
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    10:01
  • Le tre Amazzoni
    Versione audio: Le amazzoni (dal greco amazòn, composto da alfa privativa e mazós, ‘senza mammella’) appartenevano, secondo la mitologia greca, a un popolo di donne guerriere, originario del Caucaso ma insediatosi nelle coste centrosettentrionali dell’Asia Minore. Queste donne, che combattevano a cavallo, armate di arco, ascia e scudo, erano così chiamate perché, secondo il racconto, usavano amputarsi la mammella destra con un disco di rame arroventato, per tirare meglio le frecce. Le amazzoni furono protagoniste di moltissime rappresentazioni artistiche, sia nell’ambito della pittura vascolare greca, sia in quello della scultura. Molti bassorilievi rappresentano le cosiddette “amazzonomachie”, ossia le mitiche battaglie combattute dalle amazzoni. Vi sono tuttavia tre opere, in particolare, che meritano una riflessione più approfondita. Si tratta di statue a tutto tondo scolpite, da grandi maestri dell’arte greca, nel contesto di una grandiosa competizione, e note come Amazzone Capitolina, Amazzone Mattei e Amazzone Sciarra. Da sinistra Amazzone Sciarra, Amazzone Capitolina e Amazzone Mattei. La competizione Secondo Plinio il Vecchio (storico romano vissuto nel I sec. d.C.), fra il 438 e il 435 a.C. fu indetta una gara per scolpire una immagine di amazzone ferita da destinare al Santuario di Artemide a Efeso (Plin., Nat. Hist., XXXIV, 19). I contendenti furono Fidia, Policleto e Cresila, assieme a Phradmon e Kydon. Furono i medesimi artisti a giudicare l’opera di ciascun avversario, assegnando la vittoria a Policleto. La scultura di Fidia arrivò seconda, quella di Cresila terza, quella di Kydon quarta e quella di Phradmon solo quinta. Leggiamo, infatti, in Plinio: «Piacque che fosse scelta quella più apprezzata degli artisti stessi, che erano presenti, con un giudizio, allora si vide essere quella, che tutti avevano giudicata seconda ciascuno dopo la propria». (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXIV, 53). Tutti gli originali sono andati perduti; per fortuna, conosciamo i modelli dei primi tre artisti, grazie a numerose copie romane che non solo attestano il grande successo di questi capolavori ma ci permettono di confrontarli. Purtroppo, l’assegnazione di ogni Amazzone al proprio autore è ancora oggetto di discussione: le opere sono molto simili e non presentano caratteri stilistici così definiti da consentire un’attribuzione certa. Inoltre, trattandosi di copie, potrebbero non essere fedelissime agli originali. È stata formulata un’ipotesi, tendenzialmente condivisa, che tuttavia dobbiamo presentare come tale. Policleto (Sosikles copista), attr., Amazzone ferita, detta Capitolina, copia antica da un originale del 438-435 a.C. Marmo, altezza 2,02 m. Roma, Musei Capitolini. L’Amazzone Capitolina L’Amazzone ferita detta Capitolina potrebbe essere di Policleto, perché presenta proporzioni coerenti con quelle del Doriforo. La copia conservata ai Musei Capitolini è firmata da Sosiklès (o Sòsicle), uno scultore ateniese attivo alla fine del II secolo d.C. La figura femminile, sostanzialmente ponderata, scarica il peso del corpo sulla sola gamba sinistra, mentre la destra è flessa. Policleto, con il Doriforo, aveva già perfezionato la posizione ancata dei Bronzi di Riace (uno dei quali plasmato dal suo maestro Agelada), rendendola assolutamente sciolta e naturale. Eppure, sembra quasi che il grande artista stesse già ponendo le basi per il superamento di questo supremo equilibrio, come se le conquiste raggiunte fossero diventate non più solo un traguardo ma una base di partenza per nuove sperimentazioni. Osserviamo, infatti, che il busto della sua amazzone è sbilanciato verso destra, sul lato dov’è aperta la ferita, che la donna scopre rimuovendo il chitone con la mano. L’asse del corpo è chiaramente spostato rispetto al baricentro, e verso la parte instabile, poiché segue una linea ideale che congiunge il capo inclinato, la ferita e la gamba flessa. Policleto (Sosikles copista), attr., Amazzone ferita, detta Capitolina, copia antica da un originale del 438-435 a.C. Marmo, altezza 2,02 m. Roma, Musei Capitolini. Policleto, Doriforo, copia antica da un originale in bronzo del 450-445 a.C. Marmo, altezza 2,12 m. Napoli, Museo Archeologico nazionale. L’Amazzone Mattei Anche la cosiddetta Amazzone Mattei, che potrebbe essere di Fidia, presenta un esempio di superamento della ponderazione policletea. La donna, ferita alla coscia sinistra, tiene la gamba destra tesa ma si sbilancia verso la parte del corpo scarica, tenendo l’arco con entrambe le braccia: il braccio destro è sollevato sopra la testa, il sinistro invece è adagiato. Secondo alcune fonti, nell’originale, l’Amazzone si appoggiava alla propria lancia, che arrivava fino a terra. Questa posa dall’apparenza instabile era piuttosto ardita per quegli anni. Compariva una tendenza alla narrazione che avrebbe, di fatto, sancito la fine dell’esperienza classica e avviato l’apertura della grande stagione ellenistica. L’amazzone di Fidia, così come le sue gemelle scolpite da Policleto e Cresila, veste un corto chitone senza maniche stretto in vita da una cintura, e che le lascia un seno scoperto. Il panneggio a piegoline fitte, magnificamente realizzato, è un esempio di quell’effetto bagnato che avrebbe reso lo scultore famoso in tutto il mondo antico. La copia migliore è conservata nei Musei Capitolini; altre due si trovano nei Musei Vaticani. Fidia, attr., Amazzone ferita, detta Mattei, copia antica da un originale del 438-435 a.C. Marmo, altezza 1,90 m. Roma, Musei Capitolini. Fidia, attr., Amazzone ferita, detta Mattei, copia antica da un originale del 438-435 a.C. Marmo. Roma, Museo Pio-Clementino (Musei Vaticani). Fidia, attr., Amazzone ferita, detta Mattei, copia antica da un originale del 438-435 a.C. Marmo. Roma, Museo Chiaramonti, Braccio Nuovo (Musei Vaticani). L’Amazzone Sciarra La cosiddetta Amazzone Sciarra potrebbe essere quella di Cresila, uno scultore cretese attivo nella seconda metà del V secolo a.C. La quadratura delle spalle, i lineamenti del volto e la struttura corporea rimandano alla statua del Doriforo di Policleto, a dimostrazione di quanto fosse ancora autorevole questo modello. Ma in questo caso, la donna, stanca e ferita al petto, cerca sollievo sostenendosi a un pilastro e sollevando il braccio destro. La figura resta sostanzialmente ponderata, e si può supporre che pure in assenza del sostegno la donna riuscirebbe a mantenersi in equilibrio con la stessa posa. Ma, a differenza del Doriforo, l’Amazzone Sciarra presenta la spalla sinistra abbassata verso la gamba rilassata. Si nota, dunque, un’alterazione nella distribuzione dei pesi, resa evidente dalla dolente posizione del braccio destro alzato, e uno sbilanciamento verso il sostegno. Si tratta di novità di grande rilievo, che dimostrano come la codificazione canonica di Policleto non venisse considerata uno schema rigido, estraneo a ogni forma di evoluzione, ma una semplice indicazione di metodo. Si stavano ponendo le premesse per l’affermazione del nuovo modello di Prassitele, che nel IV sec. a.C. avrebbe proposto figure languide, aggraziate, malinconicamente appoggiate a dei sostegni. La copia più bella si trova a Berlino. Un altro esemplare molto ben conservato è al Metropolitan di New York. Cresila, attr., Amazzone ferita, detta Sciarra, copia antica da un originale del 438-435 a.C. Marmo, altezza 1,83 m. Berlino, Staatliche Museen. Cresila, attr., Amazzone ferita, detta Sciarra, copia antica da un originale del 438-435 a.C. Marmo. New York, Metropolitan Museum of Art. Prassitele, Hermes e Dioniso, 350-340 a.C. Marmo, altezza 2,3 m. Olimpia, Museo Archeologico. L'articolo Le tre Amazzoni proviene da Arte Svelata.
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  • Dall’Egitto a Parigi. La Piramide del Louvre di Ieoh Ming Pei
    Versione audio: Perché le piramidi dell’Antico Egitto ci affascinano così tanto? Perché sono grandi e maestose e anche per noi oggi costituirebbero una grande sfida costruttiva. Perché sono simboli di potere e di eternità. Perché la loro costruzione è ancora avvolta nel mistero: hanno camere nascoste e gli archeologi sperano di trovare al loro interno altri ambienti segreti, finora mai scoperti. Alle piramidi sono stati dedicati documentari, film di successo, libri e videogiochi. Ne consegue che, quando si pensa alla forma geometrica della piramide, vengono subito in mente proprio le piramidi egizie, i monumenti funerari per eccellenza: maestose, perfette, immutabili. Un esempio di come l’uomo possa, con l’ingegno e la fatica, creare qualcosa capace di sfidare il tempo e aspirare all’eterno. Piramidi di Cheope, Chefren e Micerino, 2600-2500 a.C. Necropoli di El-Giza. Molte piramidi nel mondo In realtà, le piramidi non sono solo egizie. Sono infatti riconducibili a questa forma geometrica sia le grandiose ziggurat mesopotamiche sia i giganteschi templi costruiti dalle civiltà mesoamericane (soprattutto i Maya), in Messico, fino al XV secolo d.C. Ricordiamo, poi, la Piramide di Cestio a Roma. Il fascino misterioso esercitato dalla forma geometrica della piramide si è mantenuto anche nell’arte occidentale di età cristiana, dal Rinascimento in poi, e soprattutto dopo la “riscoperta” ottocentesca della civiltà egizia, a opera degli archeologi. Raffaello introdusse la forma della piramide nella sua Cappella Chigi, Canova scolpì una piramide per il suo Monumento Funebre a Maria Cristina d’Austria. Ziqqurat di Ur, XXII-XXI secolo a.C. Tell-el Mugaiyar (Iraq). Piramide di Kukulcan (El Castillo), IX-XII sec. Complesso archeologico di Chichén Itzá (Messico). Piramide di Gaio Cestio, I sec. a.C. Roma. Raffaello, Cappella Chigi, 1512-14, interno. Roma, Chiesa di Santa Maria del Popolo. Antonio Canova, Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria, 1798-1805. Visione frontale. Marmo, altezza 5,74 m. Vienna, Augustunerkirche. Una piramide di vetro Ancora oggi, il fascino esercitato dalle piramidi è rimasto immutato. Lo dimostra il più famoso edificio piramidale contemporaneo del mondo: la Piramide del Louvre, inaugurata a Parigi nel 1989 e progettata dall’architetto statunitense di origine cinese Ieoh Ming Pei (1917-2019). Pei, autore di edifici avveniristici e per questo considerato come uno dei grandi maestri dell’architettura del Novecento, ha spesso ricercato la convivenza fra strutture estremamente tecnologiche con altre dalle forme più tradizionali. Questa sua Piramide del Louvre, dalla struttura trasparente, in vetro e acciaio, concepita come un nuovo ingresso per il prestigioso museo parigino, oggi si offre come centro ideale dell’intero complesso architettonico barocco. Naturalmente, l’inserimento di un’opera così moderna nella vecchia Cour Napoléon, il cortile all’interno del Louvre, ha comportato una trasformazione piuttosto radicale dell’immagine dell’antico palazzo reale. Ieoh Ming Pei, Piramide del Louvre, 1983-1989. Parigi. Così antica, così contemporanea Questa scelta, sicuramente audace, ha alimentato le proteste di chi ha voluto contestare a Pei “la geometria glaciale” della sua piramide e soprattutto l’incongruenza di questa forma geometrica con il contesto architettonico di Parigi, al quale essa sarebbe estranea. Ma l’architetto ha respinto tali critiche, dichiarando che «coloro che parlano [della piramide come] di “casa dei morti” hanno letto male la storia. Pensano all’Egitto. Quando si passa dalla pietra al vetro tutto cambia completamente. La piramide, forma geometrica fondamentale, è “classica”; essa appartiene all’arte di tutte le epoche e al mondo intero». Ieoh Ming Pei, Piramide del Louvre, 1983-1989. Parigi. Particolare. Ieoh Ming Pei, Piramide del Louvre, 1983-1989. Parigi. Veduta notturna. Ieoh Ming Pei, Piramide del Louvre, 1983-1989. Parigi. Veduta notturna aerea. L'articolo Dall’Egitto a Parigi. La Piramide del Louvre di Ieoh Ming Pei proviene da Arte Svelata.
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